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Poesia

Che cos'è la solastalgia? È un'ombra nera che persiste costantemente e indissolubilmente in un angolo della mente. Una presenza che domina e pervade ogni azione della vita quotidiana, un'ansia ineliminabile che impedisce di creare qualsiasi progetto concreto per i giorni a venire perché, diciamolo, non c'è spazio per nessun progetto di vita in un futuro che brucia. È il senso di impotenza assoluta che si mescola in un amalgama tossico con il desiderio frustrante di agire per un cambiamento che sembra totalmente irraggiungibile.


È un senso di lutto e di dolore che ti assale di fronte a un pianeta in rovina, di fronte a vite erose dalla sterile fama di crescita e di profitto della razza umana, di fronte ai fratelli e alle sorelle che annegano con me in questo senso di disperazione. 

 

Ricorda un'emicrania. E' un male lancinante e sfuggente, che si nasconde in un angolo della testa. Così vicino, presente e allo stesso tempo etereo e inafferrabile. Vorrei aprirmi il cranio per farlo sublimare in vapore tossico finalmente libero di uscire fuori di me. O spremerlo fuori distillato in un rigolo caldo di lacrime liberatrici. Ma non ci riesco. Mi sopraffà e mi fa suo, divorandomi. I sensi si amplificano fino a diventare dolorosi. La percezione del mondo diviene un'onda anomala che mi travolge e abbatte tutte le mie difese, scavalca tutte le mie barriere. L'incombenza del collasso mi abbaglia, mi acceca come un'aura oftalmica. Diventa una macchia fuori fuoco e accecante che pervade il centro del mio campo visivo e da cui é impossibile liberarsi, ineludibile. Mi impedisce di mettere a fuoco la realtà, mi rende insopportabile qualsiasi sguardo gettato sul mondo. Anche solo provare ad aprire gli occhi mi da una nausea travolgente. La testa gira e monta il vomito, un conato che spera di fare fuoriuscire tutto il male. Allora provo a chiudere gli occhi per scappare da. queste visioni e proteggermi nell'oscurità e nel rifiuto della realtà. Ma esattamente come un'aura. oftalmica, che continua a bruciare la retina e il cervello anche a palpebre chiuse, cosi questa angoscia mi perseguita e non mi lascia mai pace. Isolarmi dal mondo e provare a dimenticarlo richiudendomi in me stesso sono sforzi inutili.


Anche il più flebile bisbiglio diventa un frastuono che trapana i timpani mi rende impossibile il pensare. Le voci amiche, le profezie di catastrofe, i canti di protesta, tutto si confonde in un intelleggibile bruhaha. Ogni stimolo mi paralizza, diviene intollerabile.

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L’ecoansietà per sua natura di angoscia cosmologica é senza un corpo, é deoggettivata. E’ una paura senza corpo e senza soggetto. Un terrore paralizzante senza una causa definita e tangibile. Per questo fotografo il corpo, o meglio i corpi per dare una forma definita, materiale, fisica e visibile a questa angoscia. Fotografia come transustanziazione di ostie di carta e d'inchiostro nell'ansia che mi compenetra. Fotografia come scatola in cui rinchiudere l’angoscia in uno spazio confinato e limitato. E l’angoscia, liquida com’é, prende la forma del suo contenitore, ne riempie tutti gli angoli e pieghe. A volte questa scatola é un cenotaffio, dove lasciare decomporre i frutti putrescenti della mia mente. Alle volte é uno scrigno prezioso, un portagioie che posso riaprire a piacimento per poterne prendere i miei gioielli più cari.

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Ti ho cercata nelle poesie. 
Ti ho cercata nelle canzoni.
Ti ho cercata nella letteratura e nella pittura, 
nella fotografia e nel cinema.
Ma senza successo ti ho cercata.
Tu, angoscia della mia generazione, anatema della mia epoca, hai un volto inedito.
Sei un nuovo sentimento.
Sei il terrore di fronte ad un mondo che brucia inesorabile.
Sei la paralizzante consapevolezza della nostra condanna.
Sei l'ira impotente del condannato a morte.

Per questo scrivo:

per darti consistenza,

per plasmare come creta le parole

e con loro darti un volto tangibile, 

riconoscibile.

Non ti abbiamo mai donato la parola,

non abbiamo mai ascoltato la tua voce,

il tuo pianto,

il tuo grido,

il tuo ruggito di belva ferita.

Per questo scrivo:

per colmare questa lacuna e dare

finalmente

voce al mio malessere.

Chissà che possa mai sfiorare

qualche mia anima sorella.
 

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Bruciano nel petto piccoli polmoni di passero
e un cuor di cavallo che corre e che cuoce.
Sotto pelle capillari di corallo sbiancato dal caldo
si ramificano anemici, famelici
di clorofilla per fluorescere alla luce.
I capelli si incollano, amalgama d'alghe,
viscosa massa mossa dalla marea montante.
La bocca è secca, un'arida steppa
che in passato fremeva del vivido vociare di versi 
E oramai è muta e vuota e muta in un deserto in cui
Non sento più altro oltre all'ululare del vento.
Più giù la gola, lago d'Aral 
inaridito al sole e solo il sale rimane sulle rive
Crampi crudeli mi castigan la carne
I muscoli son morsi da mascelle maligne.
Spaventato e spaesato 
Come un vitello al macello
Cerco mia madre, mi manca il suo amore.
Disturbo ecosomatico:
divento uno con i dolori del mondo
E soffro con il pianeta.

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Il vuoto profondo fuori di me
marca paradossale il passare del tempo,
come il nero di Olbers del cielo di notte
popolato di stelle che virano al rosso 
divergendo in fuga prospettica da me,
Fedro che brillo di una fiamma si nera
al centro soggettivo di un universo 
in inarrestabile espansione

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Ogni progetto che semino 
è seme che geme
germe che freme 
e teme di sbucare 
fuori dalla morbida culla sicura della terra 
e non vuole divenire fragile preda
del mondo di fuori 
di dopo
di fuoco

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Futuro sinergico, 
lisergico, 
alimentato di stati orfici 
orfani di stati, 
di patrie 
e confini

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Le soleil réchauffe la terre
et germent les fleurs - 
parmi eux les soucis plantés il y a longtemps

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Casa mia ha un sapore di mandorla. 
Morbido amaro che ammanta la bocca 
di latte materno e mortale cianuro.
Piacevolmente repellente,
al suo gusto l'amigdala grida:
mordi e fuggi!

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Panta Rei.
Sì, ma per andare dove? 
Tutto questo scorrere mi da' il mal di fiume 
e non tengo il passo della corrente. 
Non ho più la forza.
Di fianco a me vedo scivolare
tra le correnti della storia
anime a me compagne. 
Salmoni che hanno rinunciato ad affrontare la corrente.

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Siamo astri di una costellazione, 
luci brillanti e incandescenti.
Visti da lontano,
proiettiamo disegni mistici 
sul cielo nero della storia. 
Gioco di prospettiva.
Ma come vere stelle bruciamo soli,
distanze incolmabili ci dividono. 
E senza poterci mai sfiorare,
la nostra fiamma si spegne 
inesorabilmente soffocata dal silenzioso vuoto 
dello spazio che ci separa.

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La mia mente è come la mia biblioteca. 
Confusamente ordinata, sincretica. 
Una donna di Aleramo costa a costa con Il piacere di D'Annunzio.

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Metabolizzato.
 

Sentirsi divorato dal sistema.

Vedirsi schiacciato e spezzettato da denti di ferro . 

Essere inghiottito assieme a mille bocconi a te identici.

E come bolo viscido, senza più forma,

scivolare sempre più giù lungo l'apparato digestivo del mostro.

E una volta che non opponi più resistenza, inerme,

il ventre della bestia inizia a digerirti, a metabolizzarti.

Si appropria di ogni tua scintilla di energia.

Decomposto, amorfo, perdi la tua identità, la tua integrità, la tua unità.

E diventi parte di lui, della sua struttura grottesca e imponente.

Siamo ciò che mangiamo? Ludwig quanto ti sbagliavi.

Diventiamo la bestia che ci divora.

Completamente assimilati,

dissolti irreversibilmente.

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Accanto a me vedo anime compagne, perse, rassegnate. 
Generazione crepuscolare, sorta alla vita al tramonto del mondo. 
Generazione dall'orizzonte troppo prossimo e soffocante.
Nessuna luce nel nostro futuro, 
se non le fiamme che avvolgono la nostra casa comune,
pira funebre. 
Abbagliati da immagini di rovina, attendiamo il collasso. 
Nudi, piangiamo e balliamo tristi

sull'orlo del precipizio

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Presente.

Nevrotico e narcotico, necrotico
Dispotico, distonico, discromico
Discronico e distopico
Disarmonico e cacofonico
babelico
Spasmodico e patetico
pandemico, bubbonico 
Apoplettico e anemico,
bulimico
Asettico e apatico
arsenico, amletico 
Frenetico

Farnetico

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Leggiamo Nietzsche,
anime fradice,
appesantite dall'acqua
del mare plumbeo e agitato
chiamato presente.

Solo all'apparenza fiaccati
dalla morale dello schiavo,
siamo spiriti roboanti.

Fronte alla desolazione che ci circonda
ridiamo come un fanciullo
e stacchiamo coi denti la testa
del serpente che ci morde.

Sputiamo veleno in faccia al mondo
 

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Ho male

male da morire,
male di vivere,
male di non vivere.
Ferito.
Mi abrado la pelle
scivolando accanto alla vita.

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Furibondo,
          Febbrile,
                    In una gabbia

                              Di rabbia
                                        Sabbia
                                                  Mobile.    
                                                            Sprofondo

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Crescita crescita crescita
è una metastasi e la chiaman progresso.
Senza futuro, senza un progetto.
Di questo cancro mi sento un rigetto,
un bubbone, un rifiuto, un ascesso.
Condannato dalla nascita
a questo tumore
a questo terrore
a questo orrore

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Una nube
lugubre
nella testa
immobile
alla vita mi rende inabile,
labile e fragile,
come un calice
colmo di fiele ignobile

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Nero il presente, il futuro ardente.
In questa sfera straripante di gente
sono buono a niente,
una mente assente, un corpo morente
portato dalla corrente
che in un ultimo spasmo, un sussulto fremente
si spegne per sempre.

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Cammino sul baratro del tempo, mi sporgo oltre l'orlo.
Un dedalo di futuri possibili mi si para davanti
Infiniti me, infinite scelte, infinite varianti.
Un grumo d'angoscia nel petto. Urlo.

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Siamo solo attimi, 
atomi.
Moltitudine di esili quanti, tanti quanti
i corpi celesti. Distanti, brillanti, 
ma destinati ad ardere fino a essere estinti

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L'orologio mortifero ticchetta e mai tace.
Tempo feroce. Tempo vorace. Tempo rapace.
Tempo che corri veloce e fugace,
ti prego rallenta e dammi la pace.

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In viaggio alla ricerca di un senso
mi si è parato di fronte il vuoto immenso.
Una serendipità certo, ma in senso inverso.
Mi sbarra la strada e perso penso 
e lo fisso e tremo attratto dal suo nero denso.
Mormora sornione “vienimi dentro”

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Sulle spalle lordo mantello il peso di esistere.
E sotto nudo, spogliato di ogni forza per resistere.
Mi svesto di questa cappa opprimente 
e mi libro e leggero sfugo da un futuro ardente, 
incombente

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Per colmare la vacuità dell'essere bramo il sublime.
Su di un pianeta senza futuro, giunto alla fine
cerco un senso senza tempo.
Ma l'uomo ha arso il suo tempio
e il vuoto lasciato di un vasto nulla riempio.

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Come una candela che si spegne ad un soffio e dietro sé lascia solo un filo di fumo e il puzzo di cera bruciata. Così voglio estinguermi anch'io: in silenzio, senza strepiti e convulsione, come una fiammella che muore. Rimarrà forse di me solo un'effimera memoria di luce, come l'impressione passeggera di un bagliore sulla retina.

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Un futuro catastrofico 
si richiude su noi, ermetico.
É la nostra linfa, flusso ematico,
del prigioniero la cattiva rabbia triste.
Monta, rimonta, resiste,
reflusso emetico,
fremito frenetico,
anelito cosmopoietico

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 Cresce la crisi al crepuscolo
l'angoscia mi divora, una crassa crapula
che senza scrupoli mi crivella il cranio.
Si apre una crepa e come creta secca mi sgretolo.

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In pochi versi distillo la linfa del mio malessere in una forma pura e concentrata. Ogni parola è un nero coagulo frutto di un processo di lenta combustione interna. E così poche lettere ben ordinate mi permettono di dare un'identità, una forma riconoscibile e tangibile e una voce a queste ombre un tempo amorfe e inafferrabili.

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Fetidi fumi nelle carotidi.
Una marea morta rimonta ritorta,
sale l'aorta e inonda i ventricoli.

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Mi dissocio da questa compagnia di figuranti in cerca di fama, da questa messa in scena ubiquitaria. Mi emancipo dalla vanità, dalle ambizioni di gloria, dallo stupido ed egocentrico desiderio d'immortalità. Mi ritiro al centro del palcoscenico, rinuncio alla parte d'attore della mia vita e mi trasformo in osservatore totale, passività ricettiva assoluta. Divento panopticon, animato da un'insaziabile scoptofilia, che tutto osserva e tutto registra ottenendo in ritorno il solo sensuale piacere dell'osservazione. Divento pura visione, solo occhio, un grande occhio. Ma come tale, sono condannato a poter scrutare tutto tranne me stesso.

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Tirato da fini fili
follemente ballo,
beata ignoranza del burattino.

Ma la mia danza é uno spasmo,

ultime contrazioni di una rana

bollita a fuoco lento.

Ho barattato la mia intelligenza

per il tiepido agio dell'abbondanza

che ora diviene un bruciore cuocente.

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Triste come 
una finestra murata,
muto confine tra
un orizzonte oscurato 
e un cuore malato
d'infinito.

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Casa mia ha un dolce sapore di sale

di lacrime

che brucia

che arrugginisce

e che irrita

che gratta

che leviga

che secca

che disidrata

che sterilizza

che conserva

che cicatrizza

che cura.

Erratico apatride,

trovo dimora nello spazio interstiziale

nel mezzo di tutte le terre.

Mediterraneo.

m'immergo e mi dissolvo come sale.

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Casa mia ha un sapore di vino rosso.
Un gusto che sa di calore nel basso ventre,
di sorrisi ebeti e liberi d'inquietudini,
di piedi nudi sulle assi di legno grezzo,
di canzoni improvvisate intorno ad un tavolaccio.

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Mi perdo nelle immagini prodotte dalla mia mente,
vivide e colorate come le visioni senza nome
che impregnano la retina ad occhi chiusi
dopo aver fissato a lungo il sole.
Come i riflessi cangianti sulle onde
un mezzogiorno a picco,
sono degli abbagli pericolosi:
un pensiero improvviso ed inaspettato, intrusivo,
che come un riverbero troppo pungente
ferisce gli occhi più degli altri.
E repentinamente, eccola, un’emicrania.
Sono cieco.

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Era dell’Uomo
d’oro e cherosene,
di zucchero e catrame,
di spuma e cemento.
Tormentoso fermento
di leggerezza e violenza.

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Costole titubanti,

che tentennano

nel tenere assieme questo petto

che vorrebbe aprirsi

e liberare

il suo contenuto squisito.

Costole come archi rampanti,

architravi di una cattedrale

gotica e decadente.

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Nascondere la testa dietro un angolo

per celare agli occhi la realtà

o sotto la sabbia

per soffocare l'emicrania.

Asfissia terapeutica.

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Gente che rigurgita la vita

ballando, cantando,

in un florilegio di orgasmi

ed in una logorrea

di rime e di versi.

Un vomito liberatorio

che alleggerisce il corpo

di una sbronza di troppo vissuto.

Quanta invidia:

il mio veleno lo tengo 

tutto dentro di me.

Lo covo, lo serbo,

lo lascio fermentare e incancrenire.

Mi rallenta i pensieri,

mi allappa la lingua,

mi fa biascicare come un dipsomane.

Mi spegne e mi fa scivolare in un sonno

pesante di ombre e vertigini.

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Voglio salire questa montagna di scale,

pila ripida di spigoli

taglienti come rasoi.

Ma per andare dove?

E come un corpo inerme

mi accascio.

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Requiem per la mia terra natale.

Madre morta prima di darmi alla luce,

che mi ha concepito e fatto crescere

nel suo grembo in decomposizione.

Ventre piatto,

coperto di pustole,

parallelepipedi di plastica, laminato e cemento

che scarificano una pianura sacrificata al denaro,

consumata per consumare sempre di più.

Una terra che é capro espiatorio,

immolata ad un idolo d'oro d'un falso dio

che promise benessere e crescita,

ma fu prodigo solo di catrame.

Terra santa, consacrata con un'ecatombe

di prefabbricati e magazzini dismessi,

che impestano la campagna

come bestiame sacrificato a frotte,

sventrato e svuotato delle sue interiora.

Rimangono solo degli scheletri spolpati

a decomposirsi indecorosi nell'indifferenza generale,

ex voto ex machina

a eterna memoria della gloria industriale perduta,

delle valvole e delle leve, delle pompe e degli ingranaggi

oramai ricordi sbiaditi di un fasto scomparso.

Un terreno irrigato

d'acqua santa color piombo

in un'acquasantiera smaltata di cromo.

Terra promessa senza più promesse,

ma solo un vecchio adagio:

Maledetto sia il suolo per causa tua!

Con il sudore del tuo volto mangerai il pane;

finchè tornerai a terra,

perchè da essa sei stato tratto.
Polvere siamo e torneremo polvere,

si spera al più presto.

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Ascolto l’asfalto

che cresce e striscia e strappa

spazio alla terra.

Un tremore tremendo,

rauco rumore di fondo

che fonde le orecchie e il cuore.

Nero melanoma che si espande

sulla pelle del pianeta.

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Fluttuare nella vita

come una foglia nel vento

che ha perso per sempre le sue radici.

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Sigaretta, timida automutilazione,

         pudica e discreta.

                       Bruciano con lei 

anni di vita e di sofferenza

                       in qualche boccata amara.

Attrazione carnale per la morte,

              l'amore.

Fumo Marlboro Gold

                     per avere un ricordo di te

                                        sulle mie labbra

                                                            e nella

                                                                   mia bocca.

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Suicidio: estremo gesto

di gentilezza

verso sé stessi.

Trattenersi dal farsi

tanto bene

richiede uno sforzo costante

di generosità

per non far pesare

il dolore

e il senso di colpa.
Non lo faccio, mamma sarebbe triste.

Non ringraziatemi per tanto altruismo:

vi odio tutti per questo.

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Le temps passé est le maquillage

du contour de ses yeux, 

il coule inexorablement.

Des pupilles aussi profondes 

que l'âme qui y est blottie.

Du feu et des larmes plein les yeux,

d'une lumière chatoyante plein l’esprit.

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Le buone abitudini :

leggo Cioran

il mattino di Natale.

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